venerdì 25 novembre 2011

Sei psicotico? Non puoi né leggere né scrivere

Come nel caso del post di Gianluca Merola, pubblichiamo un altro pezzo fuori dal coro. Perché è autentico, come piace a noi, e perché lo scenario che c'è dietro è lo stesso paesone culturalmente becero che contestiamo noi, come Scrittori in Causa.


Sei psicotico? Non puoi né leggere né scrivere.

Di Ugo Berardi


Mi separai dal primo amore. Dolore estremo e inesperienza mi portarono in un Day Hospital a Roma, città in cui vivevo ed ero nato.
Stimolato da medici e amici, stampai il primo libretto di poesie. Era l'86.
Fu per una ricaduta che l'anno dopo conobbi una psicologa, la quale con affetto mi disse che sbagliavo epoca, che parevo Leopardi. Troppo buona.
Poi fu la volta di un gruppo. Un analista mi mandò in controtransfert perché lamentavo il degrado morale e culturale della capitale. Ebbi di rimando una fase ossessiva e un inenarrabile stato ansioso.
Decisi di affidarmi alle strutture pubbliche e, dietro sollecitazione di uno psichiatra, finii in una comunità terapeutica.
 
Durante i tre ricoveri successivi scrissi la terza opera poetica, tutt'oggi inedita, forse la più matura. Gli operatori della comunità esordirono dicendo che i genitori mi avevano abbandonato. Cosa non vera, a cui però credetti. Considerati i miei interessi, dissero che ero un "figlio di papà", uno che non si sapeva adattare.
Proprio in quegli anni frequentavo il sindacato scrittori. Venni inserito in una cooperativa sociale dove stampai una mini guida di Roma per disabili. Mi lamentavo della confusione in ufficio. Si attaccarono a due errori di battitura per denigrarmi.
Approfondii letture filosofiche e mi consolai. Il "Tractatus" di Wittgenstein mi indusse a trovare, come poeta, misterioso il linguaggio.
Alla cooperativa mi dissero che non servivo. Venni smistato altrove. Conobbi uno psichiatra di larghe vedute che mi propose una stanza presso una persona. La cosa naufragò, il contrasto tra quel medico e la comunità fu acceso e si generò uno stress d'attrito. Quelle sere uno psicologo avveduto mi rasserenava parlandomi della sua ultima scoperta letteraria, Carlos Williams.
Dopo tre tirocini-lavoro, i ferri corti con i miei, gli operatori che insistevano fossi un privilegiato, causa la mia formazione, in breve divenni uno psicotico. Da sofferto ma banale nevrotico, passai alle voci. Alle idee deliranti. Credevo parlassero di me ovunque andavo. Erano gli anni tra il '95 e il '96: quando guardavo la tv sentivo notizie che mi riguardavano.
Gli operatori mi sfottevano e io combattevo, freddamente, l'idea di essere un Nobel. Un chiaro delirio.

Amavo una paziente che a fine disagio mi avrebbe sposato. Il delirio calò e venni dimesso dalla mattina alla sera.
Il Referente ASL, che ora è all'estero perché insoddisfatto della sua esperienza italiana, non pensò al ricovero, ma la comunità insistette, fecero carte false.
In 24 ore mi ritrovai in una clinica a Formia e persi la mia compagna.
La ripresa libertà d'amare (il resto erano "life events"), la febbre dei libri, l'equivoco di pensarmi egoista e affatto solidale, portarono a questa "punizione". "Vedrai, vedrai, che brutta fine che farai", mi avevano detto il giorno prima. Si vede che tentavano la rima.
Seguì una seconda comunità, buona per l'aspetto creativo. Strimpellavamo jazz, si faceva artigianato e psicoterapia, riscrissi delle opere ma dopo anni di clinica non ressi.
Finii in una nuova struttura, provincia a nord di Roma.
Seguii un tirocinio da bibliotecario. Tagliarono i fondi d'assunzione e terminai così. Conservo ancora una relazione filologica. Magari la cosa piacque.
Allora avevo tradotto la mia "Tavola degli esercizi" per un editore americano ma non vi fu esito per mancanza di miei fondi. Di nuovo ebbi strane idee, che svanirono del tutto nel 2000. Si pensò a una dimissione e a una casa. L'anno dopo, il mio ultimo ricovero.
Dopo mesi di provocazioni, ebbi un duro scontro col compagno di stanza. Me ne dolsi, poi, non fu da me. Non capii perché, perdonato e ripreso, si teorizzò che al minimo progetto l'ansia sarebbe montata fino all'"acting". Perciò  mai più poesie da stampare. Avevo un "io ideale abnorme", si diceva. Fui a vitto e letto per mesi. Non potei più leggere né scrivere: era un "progetto", l'anticamera della crisi. Un giorno, per dire, si criticò l'acquisto di un profumo; questo significava progredire, quindi montare ansia e tornare indietro. Una fatica di Sisifo. Ripresi d'incanto le liriche da una valigetta. Mi ristabilii, merito mio e di una analista, fra il 2002 e il 2004. Poco prima m'avevano detto che saggi critici e pubblicazioni m'avrebbero appesantito.
Anatema su di me.
La ASL, dal momento che la psicosi era in remissione, ma, passata la quarantina, non aveva senso tornare dai miei, mi smistò in un centro-parcheggio, stavolta ai Castelli Romani. Ancora vitto e letto.
Ogni tanto ci portavano in un bar, chiusi lì per due ore, poi la ritirata.
Scrissi un'altra opera. Per rabbia.
Il direttore sanitario faceva "gruppi". Argomento clinico: "State bene? Davvero? Allora leggiamo l'oroscopo".
Vi furono critiche al mio comportamento. Parenti e familiari mi indicarono un centro sopra Viterbo, dove vivevano.
Mi riavvicinai a loro.
Bastarono un paio di anni per assestare condizione, autosufficienza, interessi e rapporti esterni.
Il responsabile aveva idee moderne. Lo stimo ancora. Non si giudicò, ma si apprezzò l'amore per la poesia e le belle letture. Si lavorò sulla complessità dei rapporti e le proprie attitudini.
Fui dimesso l'anno scorso.
Un piccolo intoppo. Quando feci l'elenco di testi, saggi, manuali minimi da ripasso, ci fu chi mi vietò di mettere mano al mio conto di risparmio. Per qualche tempo mi si impedì pure di fruire di un archivio con faldoni di lavoro rimasto dai miei. Già vissi trent'anni di biblioteche pubbliche, per cui una pazienza immota si ricreò grazie ad ansiolitici.
Interessante è che pazienti che non si impegnano, ma nemmeno criticano gli operatori, possono fare ciò che vogliono e prendere casa in poco tempo. Strano modo di interpretare la legge 180.
Esiste un pensiero di cambiamento, variamente connotabile, talvolta trasversale, e uno rozzamente detto "comunista stantio", poco moderno, dallo slogan vetusto, mai dismesso, di sapore sovietico. Esiste gente che Marx nemmeno l'ha mai aperto ma se ne fa bocca, gente che non crede sul serio a una "società di liberi e uguali". La libera espressione di tendenza e di pensiero non cozza affatto con l'aspetto solidale. Certo, vi sono operatori ottimi e smaliziati, ma questo problema esiste in tutt'Italia, quella che chiuse i manicomi e poi si contraddisse.
Penso a Solgenitzin e Brodskij quando vado a "fare terapia" al vecchio centro: lavo i piatti di persone che non sanno fare gli spaghetti dopo quattro lustri di riabilitazione. Mentre io, oltre ad aver subito un controllo dell'arredamento, per appendere uno Schifano ho dovuto chiedere un "permesso".
Tempo fa si era pure paventata l'idea di parlare con l'affittuario (cosa illegale) e farmi perdere la casa.
Dell'ultimo periodo è stata una riunione tecnica, su mia insistenza, che ha rivalutato il mio impegno e auto-accanimento terapeutico. La cosa mi rende felice. E qui chiudo.

Ugo Berardi, ex-cronista, poeta, critico di poesia per passione.