venerdì 25 novembre 2011

La maschera del privilegio

Questo pezzo di Simona Baldanzi è uscito su Nazione Indiana.
Lo riportiamo integralmente.


Scrittori in Causa e la maschera del privilegio

Di Simona Baldanzi

Alla domanda cosa vuoi fare da grande, non ricordo di aver mai risposto. Avevo la sensazione che era meglio non sognare che lavoro fare da grande, per non rimanere delusa. Forse sembravo una con le idee poco chiare, che non si impegnava abbastanza, invece ero semplicemente una bambina concreta.
Alla scuola elementare, i miei pensierini facevano emozionare le insegnanti, e i miei erano contenti, non perché iniziassero a vedere in me chissà quale dote, ma perché, andando bene a scuola, gli levavo un pensiero nella gestione della vita quotidiana. Se ho mai pensato di fare la scrittrice? Macchè, figuriamoci. Da piccola imparavo che scrivere e lavorare sono due cose molto lontane. Certo, sapevo bene che leggere e scrivere correttamente mi avrebbero aiutato ad affrontare i pensieri di tutti i giorni, ma non che il solo fatto di scrivere potesse darmi da vivere. Al massimo poteva darmi qualche soddisfazione: al ritorno dal Campiello Giovani, mia mamma mi disse che c’era il concorso alle poste.


Sono cresciuta in una famiglia che mi ha sempre fatto notare i miei limiti. Non avrei mai osato pensare che a quello che avrei scritto sarebbe corrisposto del denaro. Non sto dietro ad annoiarvi con i particolari della mia infanzia, questa introduzione mi serve per farvi capire una cosa: che con quella formazione lì mi sono ritrovata fra le mani il mio primo contratto editoriale.
Potete immaginare quanto fossi emozionata… Ero sola in casa editrice, i miei non sapevano nulla e, ancora prima di capire dove mi trovavo e con chi avevo a che fare, avevo già quelle pagine da firmare sulle ginocchia. Nella testa sentivo la voce di mia nonna che mi diceva: non si firma nulla senza leggere! Prevalse, così, il mio lato concreto. Presi fiato e chiesi se quelle pagine le potevo portare a casa per valutarle con un po’ più di attenzione, perché in quel momento non ne ero proprio in grado. Insomma, lo tenni a casa una settimana. Lo sfogliavo, lo leggevo, la casa editrice, intanto, mi pressava per avere indietro il contratto firmato: ci saranno altri che la vogliono pubblicare? Si stavano forse domandando.
Mentre leggevo il contratto, certe cose non mi tornavano, intuivo che tante conseguenze non le potevo prevedere, ma ero sola e non mi potevo confrontare con nessuno. In più avevo in mano questo privilegio: i miei vanno in fabbrica e tu scrivi romanzi, e ti lamenti pure? Insomma, mentre leggevo e rileggevo c’era questa vocina che continuava a ripetermi: sei una privilegiata, non stare lì a perdere tempo! E allora cosa ho fatto? Ho firmato e stiamo a vedere.
Poi sono cresciuta e il contratto editoriale è diventato un contratto a tutti gli effetti, come tutti gli altri contratti di lavoro che ho firmato nella mia vita. Allora ho cominciato a chiedermi: significa che faccio la scrittrice? Significa che scrivere è un mestiere? Se ci campi, se ci credi, se ha un senso per te, sì.
Anche nella scrittura, come nella vita, ci possono essere risposte intime e risposte pubbliche. Brutalmente, il motivo per cui scrivi può essere affar tuo, ma quali contratti firmiamo per scrivere possono essere affari utili a tutti se pubblicizzati e condivisi. Mi interessa che ci sia l’attenzione ai contratti, che ci sia il rispetto di ciò che si firma, che ci sia chiarezza sulle conseguenze di certi articoli o prassi, che ci sia informazione su tutto ciò che ruota intorno all’uscita di un libro. Mi piacerebbe che nel piatto del dibattito della scrittura e dell’editoria italiana ci si confrontasse sui contratti, sulle case editrici corrette e su quelle scorrette, sugli editori che pagano e su quelli che non pagano, quelli che ti sostengono a dovere nel lavoro di editing e quelli che non lo fanno, quelli che promuovono e quelli che non lo fanno, quelli trasparenti e quelli che ti imbrogliano sul numero di copie vendute ecc.
Se riuscissimo a raccontarci un po’ di storie, avremmo un buon quadro del dietro le quinte delle case editrici, sicuramente più utile dei gossip sui retroscena dei salotti, dei saloni, dei festival e dei premi letterari. Utili a noi che già scriviamo e ancor di più ad aspiranti scrittori, a esordienti col contratto sulle ginocchia, che non sanno con chi confrontarsi. Parlando con Amitrano, Nazzaro e Cutolo ho capito che non ero la sola ad avvertire una mancanza di confronto e dibattito su questi aspetti. Così è nata l’idea di Scrittori in Causa, un organismo indipendente di informazione e confronto sui diritti delle scrittrici e degli scrittori.
Scrittori in Causa intende:
- proporre la modifica delle norme e delle consuetudini contrattuali che danneggiano la figura dell’autore ponendola, spesso, in una posizione di netto svantaggio rispetto a quella dell’editore;
- divulgare le inottemperanze contrattuali;
- creare un punto di riferimento e di confronto aperto su internet, per autori esordienti e non, circa le norme contrattuali svantaggiose e la loro conseguente possibilità di “contrattare”;
- creare uno sportello legale in grado di assistere professionalmente gli autori nel loro rapporto con gli editori.
La cosiddetta sinistra, con le sue cittadelle culturali, i suoi salotti editoriali, il famoso monopolio intellettuale di cui va tanto fiera, ha una responsabilità omertosa nel non aver messo in discussione il consolidarsi di consuetudini ingiuste e prezzolate in questo panorama editoriale. Per questo nasce il nostro progetto, È un progetto aperto, in costruzione. Un progetto da discutere, diffondere, condividere anche con critiche, riflessioni, suggerimenti.
Vi scrivo con la testa a Pomigliano: quarant’anni fa nacquero lo statuto dei lavoratori e il contratto collettivo, nacquero diritti discussi e poi condivisi. Tutto questo accadeva in fabbrica. Oggi muoiono le fabbriche e muoiono quei diritti.
Non sarà un caso che Scrittori in Causa nasce proprio in questo giugno che ci fa diventare tutti ancora più precari e indifesi. Pur con le nette differenze che ho ben presente fra catena di montaggio e tastiera del computer (anche se di mercati si parla, perché libro e auto sono pur sempre prodotti), se penso a cosa mi ha fregato  nell’editoria, vedo qualcosa che assomiglia a quello che ha fregato i lavoratori di Pomigliano d’Arco: l’idea del privilegio. Io che pubblico sono privilegiato, io che lavoro sono privilegiato. Se invece togli la maschera al privilegio, scopri il ricatto. Se firmi, pubblichi, se accetti l’accordo, lavori. In causa ci siamo noi. In causa ci siamo tutti.
Simona Baldanzi