La verità non è diffamazione
Durante le recenti proteste pubbliche per i mancati pagamenti dei
compensi da parte di alcuni editori, non solo gruppi di dipendenti e
collaboratori ma anche singoli lavoratori dell’editoria hanno deciso di
esporsi a titolo personale dichiarando pubblicamente quali compensi non
gli fossero stati liquidati, da quali editori e da quanto tempo. Altri
hanno preferito tacere, del tutto legittimamente, perché si tratta di
una scelta individuale che dipende da molti fattori (per esempio nel
caso di un contenzioso legale in corso si può preferire non inasprire
ulteriormente i rapporti in attesa dell’esito di eventuali trattative).
Ma quando per molti editori il ritardo nei pagamenti diventa una modalità di sopravvivenza mettendo sistematicamente il rischio d’impresa sulle spalle di dipendenti e collaboratori
(una realtà tutt’altro che marginale che sta finalmente emergendo)
dichiarare pubblicamente il nome dell’editore insolvente può essere non
solo più incisivo dell’ennesimo inascoltato sollecito di pagamento, ma
anche un’azione significativa utile a informare e mettere in guardia
altri potenziali dipendenti e collaboratori perché non si fidino di un
editore cronicamente insolvente, ed evitino dunque di lavorare per lui
se può considerarsi improbabile venire pagati entro i termini stabiliti
dal contratto.
Diventa quindi particolarmente cruciale in questo momento una questione che per moltissimi è ancora un dilemma: posso dire pubblicamente che il mio editore non mi paga senza rischiare di essere querelato per diffamazione?
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