Di Sergio Nazzaro
Entro nella stanza. L’editore guarda fisso lo schermo del PC. La cortesia non è uno dei maggiori pregi degli uomini affaticati a portare avanti la cultura italica. Non di tutti almeno.
“Parliamo o vado via?”. Percepisce il mio fastidio. Alza lo sguardo.
“Guarda, che non ci siamo proprio. Io non ho soldi per gli anticipi. E poi il contratto che mi hai rimandato non esiste proprio”. Già, il contratto.
“Beh, quello che mi hai mandato tu non era niente male: due pagine di word senza intestazione, cessione totale dei diritti, nessun anticipo, qualche royalty quando sarà, e cessione di tutti i diritti secondari con percentuali ridicole a mio favore. Ci credo che la mia revisione non ti piace proprio, ma sai che cosa è un contratto?”
“Devi capire che non ci sono soldi, che si vendono pochi libri e, soprattutto, viviamo un periodo storico da massa culturale”.
“Cosa c’entra la massa culturale con il mio contratto?”.
“Beh, ci sono tantissimi scrittori disposti a scrivere e pagare pur di pubblicare. E guarda che sono anche molto bravi. Questa è la massa culturale, ci sono più persone che scrivono di quelle che leggono. E pagano per scrivere”.
Per un attimo vorrei ribattere con la qualità ma mi fermo. Mi guardo intorno. Sono in una casa editrice di sinistra, ma molto di sinistra. Ormai lo sanno tutti, ma è bene ribattere: sinistra non significa che ci si rapporti con persone civili, anzi. Piccoli caporali pronti a fottere il prossimo in nome della giustizia sociale, o del proprio portafoglio. Che per loro equivalgono.
“Della massa culturale non me ne frega niente, prenditi pure tutti scrittori che pagano per i loro libri. Io vengo pagato quando scrivo, quindi vediamo di definire il contratto una volta per tutte”.
“Questo che mi hai mandato non va proprio bene, cosa significa che cedi i diritti per un solo anno? La legge prevede 20 anni”.
“No, la legge prevede un massimo, non un minimo. Beata ignoranza”.
“E poi tutte queste altre voci, i diritti delle traduzioni, per i film, non li puoi trattenere per te, sempre secondo legge”.
“Beata ignoranza bis, perché secondo legge posso”.
Il discorso è surreale. Invece di trovarmi di fronte un imprenditore culturale, che si mette in gioco, che valuta, che agisce con rapidità e cognizione di causa, mi sembra di essere tornato al lavoro nelle campagne. Lavoro di cui molti parlano, ma che pochi hanno fatto: si contratta la giornata sotto al sole, sperando che poi arrivi la paga. Dalle campagne del Sud a questo importante editore di sinistra nel cuore del centro di Roma scorgo certe somiglianze: arroganza, ignoranza delle leggi contrattuali, superficialità, un atteggiamento di continua giustificazione dei propri comportamenti.
“A te piace litigarti con gli editori, questa è la verità”.
“Non è vero, se gli editori si comportassero da veri professionisti non ci sarebbero problemi. E poi siccome metti il dito nella macchina da scrivere, ti dico solo che l’ultimo editore che ha avuto a che fare con i miei avvocati ora è pieno di ingiunzioni di pagamento. Chissà come mai, forse ho fatto da apripista? Non mi piace litigare, ma difendere i miei diritti sì. E poi, toglimi una curiosità, hai pagato gli anticipi ai nomi altisonanti che stanno nel tuo catalogo?”.
“Io ho dato mandato…”.
“Sei mesi fa…”.
“E poi si sono trattenuti i soldi delle copie vendute…”.
“Che tu abbia pagato o meno, sai che cosa significa gestire una casa editrice, un’impresa?”.
“Tu non capisci, l’Italia si deve cambiare, bisogna fare spazio ai giovani, alle idee…”.
“Sì, ai giovani che pagano e alle idee aggratis… comunque ti faccio sapere, ora ho da fare, ti rimando la mia controproposta”.
Lo ammetto: esco sconfortato. Torno a casa e aspetto. Dopo un mese, nessuna controproposta. Neanche una comunicazione. Però vogliono che presenti il libro, che lo promuova, che vada in giro.
Già, il libro è stato stampato da un bel pezzo. Me lo rigiro tra le mani il mio libro orfano di contratto e decido di dargli un genitore. Chiamo il mio avvocato.
“Ho un piccolo problema”.
“Immagino con un editore”.
“Sì, ha stampato un mio libro senza farmi prima firmare un contratto”.
“Questa volta ci divertiamo proprio”.
Eppure non mi viene da ridere.
PS: (non sono tutti uguali)
Negli stessi giorni di questi avvenimenti, mi relaziono con un altro editore, del Nord (lo specifico perché ormai Roma è troppo vicina al Sud, e io che sono meridionale so di cosa parlo). Non professa fedi ideologiche, ma ha una grande storia editoriale. Gli invio un email con il mio progetto editoriale. Il giorno dopo, con mia grande sorpresa, mi rispondono: “La chiameremo quanto prima per discutere del suo progetto”. Il pomeriggio stesso mi chiama l’editor. Cortese, professionale, preciso. Quasi un’ora al telefono. “La richiamo tra 10 giorni che abbiamo la riunione con l’editore e le faccio sapere”. Dieci giorni dopo: “Come le avevo promesso, ho parlato con l’editore, c’è molto interesse, quindi andiamo avanti”. Questa è professionalità, e questa è la dimostrazione che non tutti gli editori sono uguali. Ma c’è bisogno di mettere a nudo quei caporali dell’editoria che si pavoneggiano di grandi e progressive trasformazioni nella società.