Articolo uscito sabato 1/12/12 su Orwell, l'inserto culturale del quotidiano Pubblico.
Se è a pagamento non è editoria. Punto.
Gli editori a pagamento, imprenditori invalidi (o
finti tali) che mettono il peso del rischio d’impresa sulle spalle degli
autori, sono sempre esistiti. Oggi però, grazie alla crescente domanda di pubblicazione ad ogni costo
da parte degli autori, si sono sviluppati e moltiplicati come non mai.
Insomma: autori che non scelgono, pubblicati da editori che non
scelgono. E questo in un ambito in cui invece la scelta è un elemento
determinante, sia per l’autore che dovrebbe cercare, pur faticosamente,
il percorso editoriale più costruttivo e favorevole, sia per l’editore,
che dovrebbe costruire la propria credibilità di imprenditore culturale
proprio sulla selezione.
L’importanza di decidere cosa pubblicare e cosa no (sia dal punto di
vista dell’editore che da quello dell’autore) viene individuata
perfettamente da Italo Calvino nella famosa lettera del
1954 a Mario Ortolani: «ma che ti piglia? Avertela a male per un
manoscritto rifiutato? Ma ti sembra il caso? Fallito: e perché? Falliti
sono quei poveretti a cui editori troppo indulgenti […] hanno pubblicato
i primi libri […] e poi non hanno saputo continuare e hanno visto la
critica trascurarli, il pubblico dimenticarsi di loro… Quelli sì che
sono casi tristi […]. Se le reazioni dei primi lettori non sono
completamente favorevoli non pubblico: perché dovrei pubblicare? Farei
il mio danno: è un sacrificio, ci ho faticato e sperato, ma si deve
pubblicare solo quel che si è sicuri che è compiuto, che ha raggiunto
quello che voleva raggiungere».
Analogamente, ma in relazione alla situazione attuale dell’editoria, Gian Carlo Ferretti, nell’ultima parte del suo Siamo spiacenti – Controstoria dell’editoria italiana attraverso i rifiuti, appena pubblicato da Bruno Mondadori, rileva come la straordinaria facilità di pubblicazione emersa negli ultimi anni nasconda in realtà diversi svantaggi:
«significa molto spesso mancanza di filtri critici e di mediazioni
culturali, portando così addirittura a una certa svalutazione dell’atto
stesso della scrittura. […] Al tempo stesso restare inediti appare quasi
impossibile, e la stessa figura eroica o patetica, ansiosa o fiduciosa,
sofferente o baldanzosa dello scrittore inedito rifiutato tende a
scomparire. Ma ne compare un’altra, quella dello scrittore abbandonato,
che è il frequente doloroso risvolto del facile passaggio dall’inedito
all’edito».
Se per gli editori a pagamento sembra impossibile rinunciare al
denaro degli autori, gli autori sembrano non prendere neanche in
considerazione la possibilità di non pubblicare affatto. Giorgio Fontana, il 25 novembre scorso nel suo intervento al Writers Festival di Milano,
pone una domanda fondamentale e nient’affatto oziosa: «perché scrivere
con il fine di rendere pubblico ciò che si scrive?», e riferendosi alla
recente decisione di Philip Roth di abbandonare la scrittura, sostiene
la nobiltà di questo tipo di scelta soprattutto per chi invece a
pubblicare non ha ancora cominciato: «a me interessa molto di più uno
sconosciuto che, nel silenzio della propria totale oscurità, rinuncia
senza clamori e per semplice rispetto — perché a suo giudizio sa di non
poter fare abbastanza. Compie un gesto per cui va ringraziato: rinuncia
al desiderio malato di dire la propria, rinuncia alla santificazione di
ogni opinione, rinuncia all’idea che poter pronunciare una parola
significhi doverla pronunciare, e che la libertà coincida con il suo
esercizio sempre e comunque».
Ma è dunque tutta colpa della febbre da pubblicazione di questi nuovi
aspiranti scrittori se la prassi viziata dell’editoria a pagamento (che
insieme ai soldi si accaparra anche i diritti esclusivi delle opere) ha
tanta fortuna? In molti, tra gli addetti ai lavori e gli scrittori che
pubblicano normalmente a spese dei propri editori, sostengono di sì, e
liquidano la questione considerando che chi è così babbeo da pagare, se
lo merita. Come se la questione non li riguardasse, come se questo
fenomeno ormai vastissimo non fosse un segnale preoccupante di un quadro
molto più ampio, di una distorsione profonda e diffusa del senso e
della natura dell’editoria che non può essere ignorata o sminuita
sbrigativamente come problema altrui, e che andrebbe invece affrontata
con decisione non solo dai singoli operatori culturali, ma anche e
soprattutto dagli organismi più importanti e influenti.
Un segnale positivo in questo senso è arrivato da una netta e
inequivocabile presa di posizione del Presidente dell’AIE (Associazione
Italiana Editori) Marco Polillo, che durante
un’intervista per Libriblog ha dichiarato: «L’editore fa questo mestiere
rischiando del suo, perché crede nel prodotto che fa e crede nel fatto
di portare al pubblico attraverso i canali, le librerie soprattutto e la
grande distribuzione, dei testi che ritiene meritevoli di essere letti e
accettati dal lettore. […] L’editore a pagamento in realtà non è un
editore, è uno stampatore. […] Chi pensa o si propone di fare l’editore
facendosi pagare una quota a parte o anche l’intera parte dall’autore
stesso, non è più automaticamente un editore. […] Sono contrarissimo
agli editori a pagamento».
É importante che un organismo autorevole come l’AIE finalmente
stigmatizzi una prassi editoriale che, azzerando la componente selettiva
della pubblicazione, snatura e delegittima completamente il ruolo
cruciale dell’editore come soggetto culturale. Sorprende non poco
quindi, alla luce di questa significativa dichiarazione di Polillo,
scoprire dalla cartella stampa di Più Libri Più Liberi
(la fiera della piccola e media editoria che si svolgerà dal 6 al 9
dicembre prossimi a Roma e organizzata proprio dall’AIE) che fra gli
espositori figurano ben 26 editori a pagamento (presenti nella lista Writer’s Dream consultabile sul blog Lipperatura).
Non dovrebbe la più importante e influente associazione italiana di
editori avvalorare le parole con i fatti e fare a sua volta una scelta
di qualità tenendo fuori dalla fiera gli editori a pagamento, cosicché
agli occhi dell’aspirante scrittore non si mimetizzino e confondano con
gli editori invece degni di questo nome? È proprio vero che certe volte,
come sostiene Ferretti all’inizio del suo saggio, «Niente è meglio di
un rifiuto».
Carolina Cutolo
[Da Orwell del 1/12/12]